Il significato della mimosa nel linguaggio dei fiori
Pianta dalla bellezza
straordinaria, fatta di eleganza e grazia, la mimosa è un alberello della
famiglia delle Leguminose e del genere Acacia. La conoscenza e
l’osservazione delle sue caratteristiche botaniche hanno portato ad attribuire
a questa pianta diversi significati simbolici suggestivi, profondi e molto
poetici. Vediamoli insieme in questo post.
La mimosa come simbolo di
sensibilità
Il nome mimosa deriva dal
latino “mimus”, mimo. Il mimo è un attore che interpreta la parte solo
con i gesti e le espressioni del volto, che cambia con rapidità di scena in
scena. Le foglie della mimosa, infatti, si chiudono su sé stesse se disturbate,
mimando l’aspetto di un albero privo di vita e scoraggiando così gli attacchi
di insetti (come i defogliatori) e predatori (le giraffe sono ghiottissime di
mimosa). Questo comportamento è immediato nella Mimosa pudica: basta sfiorarla
appena che si richiude all’istante. Nell’Acacia dealbata, che è la specie di
mimosa che vediamo fiorita in questi giorni, il fenomeno della chiusura delle
foglie avviene durante i temporali (tra l’altro, teme il vento), quando il
cielo è molto rannuvolato, nelle giornate di freddo e di notte. Ecco perché la
mimosa è simbolo di sensibilità, pudore e innocenza.
La mimosa come simbolo di
delicatezza
Quando la mimosa sboccia,
produce una nuvola di capolini sferici soffici e vaporosi, tanti piccoli
batuffolini piumosi raccolti in grappoli di grandi dimensioni che ricoprono
tutto l’albero. Per le loro caratteristiche di leggerezza e sofficità sono diventati
l’emblema della delicatezza.
La mimosa come simbolo di
forza e resilienza
È vero che non tollera la
siccità e l’aridità e predilige i climi miti (e in questo senso ritorna il
concetto di delicatezza) e senza vento, però è anche una pianta che resiste
alle gelate, in quanto sopporta per brevi periodi anche temperature di -10°.
La mimosa, inoltre, è una
delle poche piante che riesce a sopravvivere agli incendi. Il suo apparato
radicale è superficiale ma assai robusto ed esteso e da esso nascono facilmente
polloni grazie ai quali la pianta si rigenera dopo il fuoco.
Per tali ragioni, la
mimosa è simbolo di vigore, energia, forza, tenacia,
resilienza. Regalare una mimosa perciò significa dire a una persona: «Hai
la forza per superare tutto e la sicurezza interiore per ricominciare,
rinvigorire e rifiorire».
La mimosa come simbolo di
amore segreto
Presso gli Indiani
d’America era uso regalare alla ragazza di cui ci si era innamorati un mazzetto
di rametti di mimosa. Una dichiarazione d’amore dolce e tenera, che
manifestava un sentimento fino a quel momento tenuto nascosto, perciò segreto,
e vissuto, nell’attesa, di palpiti e sogni.
La mimosa simbolo di
femminilità
Siamo soliti pensare che
la mimosa è il simbolo della donna e della femminilità per via dell’iniziativa
dell’UDI (Unione Donne in Italia) del 1946, che lo adottò come fiore ufficiale
della Festa della Donna. In realtà, le vicende storiche ci dicono che, scartate
le violette (e, pare, altri fiori), una parte delle donne UDI voleva scegliere
l’orchidea, ma poi la decisione cadde sulla mimosa, perché meno costosa e più
facile da trovare nei giardini e nelle campagne. Una decisione legata, dunque,
all’aspetto economico e popolare del fiore e non al suo vero significato.
In realtà, l’associazione
tra la mimosa e il mondo femminile è molto più antica. Già le ragazze inglesi
dell’Ottocento erano solite appuntare un rametto di mimosa alla giacca per
esaltare la propria femminilità. Ma, soprattutto, prima ancora, è una leggenda
australiana a dirci come la mimosa fosse sin dai tempi antichi il simbolo della
donna che ama con tutto il cuore, capace di diventare coraggiosa e di non
arrendersi mai nonostante le difficoltà.
La mimosa è infatti
originaria della Tasmania ed è lì che si racconta la storia della regina Azar.
Una storia che ci mostra come una donna possa, al di là delle circostanze
difficili e di tutti gli ostacoli, amare (e decidere) con tutto il suo cuore e
con coraggio.
La leggenda della mimosa
È in un tempo lontano, in
un paese lontano, dall’altra parte del mondo, nell’isola di Tasmania, che la
pianta di mimosa è nata. Gli abitanti dell’isola tramandano da secoli la
leggenda che ci narra la sua origine.
In quel tempo, l’isola
era dominata da Asan, un re guerriero, valente, forte e pieno di coraggio. Era
bello, alto e agile. La sua pelle era scura e i capelli neri e lucenti come
l’ala del corvo ma il suo cuore era tremendamente indurito dalle numerose
battaglie. Come era lui, così era la sua gente: alta, scura di pelle e dai modi
bruschi, con lunghi capelli lisci a incorniciare i volti severi. Il re amava i
combattimenti contro le numerose tribù nemiche che vivevano ai confini del suo
regno fatte per stabilire e consolidare il suo potere e i suoi lo seguivano con
fedeltà. Quando non era impegnato in guerra, si dedicava con i suoi uomini alla
caccia alle belve selvatiche che popolavano l’isola.
Il re era sposato con
Azar, una giovane e bella fanciulla del
tutto diversa da lui e dal resto della gente della tribù, sia fisicamente che
caratterialmente. Timida e dai modi aggraziati e gentili, la giovane regina era
piccola di statura. I suoi capelli erano una nuvola di ricciolini corti e
biondi che sembravano mille batuffolini d’oro. Aveva la pelle dorata come il
miele d’acacia e una voce bassa, tanto dolce e soave da sembrare una musica
infinita. La piccola e timida regina sembrava giunta nell’isola da un altro
mondo, da un mondo fatto di bei fiori, di profumi, di sorrisi e di pace.
Un giorno, durante un
duro combattimento, il re venne gravemente ferito. La madre e la sorella del re
amavano molto Asan, ma non amavano affatto la sua bella e giovane moglie.
Gelose della dolce e tenera bellezza di lei, la disprezzavano con tutto il loro
cuore, duro quanto quello di lui.
Non appena seppero del
ferimento del re, si precipitarono al suo capezzale. Approfittando della
timidezza della regina che rispettava e non osava opporsi alla cognata e alla
suocera, le due donne riuscirono a tenerla lontana dal marito. Azar era
disperata, perché voleva vederlo e prendersi cura di lui, ma non riusciva a far
valere i propri diritti di moglie e non sapeva cos’altro fare.
La piccola regina,
infatti, si sentiva e, soprattutto, era sola, abbandonata da tutti. Nessuno la
consigliava o l’aiutava, perché i cortigiani si erano schierati dalla parte del
più forte, delle due donne e del sovrano, nella speranza di impadronirsi di un
posto di favore nel cuore del re.
Passarono i giorni e poi
le settimane e poi i mesi. Il re guarì. Il suo primo desiderio, non appena
ripresosi, fu di punire la moglie, perché lei non era mai andata a fargli
visita. Accecato dall’orgoglio, quell’orgoglio che prima gli aveva impedito
nella malattia di ordinare la presenza della donna che il suo cuore invocava e
poi, guarito, di ascoltare le ragioni della sua amata, bandì dal suo cospetto e
dalla sua vita la giovane moglie innocente. Non volle nemmeno vederla. La fece
riportare alla sua casa da nubile, sciogliendola dai suoi doveri di moglie e
madre di cinque figli e libera di risposarsi con chi volesse.
In soli sette giorni il
fratello di Azar la sposò a un principe che viveva in luoghi lontani, distanti
dal regno dal quale la piccola regina era stata senza colpa bandita. Timida e dolce com’era,
la piccola e infelice Azar, ormai senza più lacrime né desideri, non si ribellò
al suo destino. Chiese soltanto, come dono di nozze, un velo che le
consentisse, durante il lungo viaggio per raggiungere la sua nuova dimora, di
coprirsi il volto ed il corpo, per non essere riconosciuta da nessuno quando
fosse passata dalle terre di Asan poiché l’incontro coi suoi figli, che aveva
dovuto abbandonare lasciandoli al marito, le avrebbe spezzato il cuore.
Il principe suo nuovo
sposo non era duro di carattere come Asan. La disarmata dolcezza della piccola
regina scacciata dal suo regno parlò dritto al suo cuore. Regalò dunque alla
giovane il velo che desiderava e col quale si ricoprì interamente. Nonostante
ciò, quando passò davanti alla reggia di Asan, i suoi figli, che ogni giorno
spiavano dall’alto delle torri il ritorno della madre, la riconobbero e
accorsero da lei piangendo e chiedendole di tornare da loro.
Ancora una volta, Azar
fece appello al buon cuore del suo nuovo marito, chiedendo che le fosse consentito
di fermarsi un momento e di lasciare un dono a ciascuno dei figli. Il principe
acconsentì alla richiesta della sua piccola sposa disperata per la perdita.
Azar regalò ai suoi bambini maschi stivali trapuntati d’oro, lunghe e ricche
vesti alle fanciulle e lasciò un abitino per il più piccolo, che dormiva nella
culla. Il padre vide da lontano tutta la scena e richiamò a sé i suoi figli,
gridando loro di sbrigarsi e di dimenticare in fretta quella madre indegna di
loro.
Azar come sentì quella
voce dura che dettava ancora una volta il suo destino e quello dei suoi figli
si bloccò e non seppe trovare parole a difesa della sua innocenza. Si accasciò
a terra sfinita dall’ingiustizia e dal dolore. Il lungo velo di nuova sposa si
posò pietoso sopra di lei, come a coprirla dagli sguardi sprezzanti del re e
dei suoi cortigiani.
Non vedendola tornare, il
suo nuovo sposo andò a cercare l’infelice creatura per riprenderla con sé. Era
deciso a regalarle un’intera vita di felicità. Ma ormai il triste destino di
Azar era arrivato a compimento. Non appena il principe pietoso sollevò il lungo
velo, trovò un arbusto fiorito dalle radici saldamente ancorate al suolo. Era
una mimosa.
Provò a sradicarla, ma fu
impossibile. Forti come l’amore di una madre decisa a non lasciarsi strappare
dal luogo in cui aveva lasciato il suo cuore, le sue radici resistettero e non
cedettero. La lasciò perciò lì dove lei aveva desiderato restare per sempre.
Qualche tempo dopo, dai suoi rami spuntarono tanti piccoli capolini profumati,
leggeri e dorati come i capelli che ricoprivano il capo di Azar, al tempo in
cui era stata felice.
Questa leggenda fu
scritta in onore di Azar, principessa e regina dolce e buona ma infelice,
capace alla fine, dopo tanta obbedienza costretta e remissività, di far valere
il suo volere.
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